È arrivata nella mattinata di giovedì 23 febbraio 2012 la sentenza della Corte europea dei diritti umani che condanna l’Italia per il respingimento in mare, avvenuto nel 2009, di 24 migranti ricondotti in Libia dalle stesse autorità italiane.

L’Italia dovrà versare un risarcimento di 15mila euro più spese a 22 delle 24 vittime, i cui ricorsi sono stati giudicati ammissibili. Secondo i giudici di Strasburgo il nostro paese ha violato ben tre dei principi fondamentali della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: il divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (art. 3), la possibilità (in questo caso negata) di poter fare ricorso (art.13) e il divieto di espulsioni collettive (art.4 IV Protocollo).

La sentenza si riferisce al caso” Hirsi e altri contro Italia” dove l’Italia è imputata per i fatti accaduti il 6 maggio 2009, a 35 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali. In quell’occasione avvenne infatti il primo respingimento collettivo effettuato dalle autorità italiane che intercettarono una barca con a bordo 200 persone di nazionalità Somala ed Eritrea , tra cui c’erano anche dei bambini e alcune donne in stato di gravidanza. I migranti furono imbarcati su una nave italiana e riconsegnati alle autorità libiche a Tripoli, senza essere prima né identificati, né ascoltati, né informati sulla loro effettiva destinazione. Secondo il Cir, (Centro Italiani per i rifugiati), “ I migranti non hanno avuto alcuna possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale in Italia. Di questi 200 migranti, 24 persone (11 somali e 13 eritrei) sono state rintracciate e assistite in Libia dal Consiglio Italiano per i Rifugiati e hanno incaricato gli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani, di presentare ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo”. “Le successive condizioni di vita in Libia dei migranti respinti il 6 maggio 2009 sono state drammatiche –  sempre secondo il Cir  –  la maggior parte è stata reclusa per mesi nei centri di detenzione libici, dove ha subito violenze e abusi di ogni genere. Due ricorrenti sono deceduti nel tentativo di raggiungere nuovamente l’Italia a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Altri sono riusciti a ottenere protezione in Europa, e uno dei ricorrenti proprio in Italia. Prima respinti e poi protetti, a dimostrazione della contraddittorietà e insensatezza della politica dei respingimenti”.

Dopo gli stop alla politica dei respingimenti arrivati dai tribunali ordinari, dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione, con questa storica sentenza, la Corte europea per i diritti umani ha stabilito un punto fermo, riaffermando con forza il principio del non refoulement (non respingimento), che proibisce di respingere migranti verso paesi dove possono essere perseguitati o sottoposti a trattamenti lesivi della dignità umana.  “Un’importante indicazione per gli stati europei circa la regolamentazione delle misure di controllo e intercettazione alla frontiera” – ha definito la sentenza Laurens Jolles, il Rappresentante dell’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) per il sud Europa – “ci auguriamo che rappresenti un punto di svolta per ciò che riguarda le responsabilità degli Stati e la gestione dei flussi migratori”. “Le misure di controllo alla frontiera non esonerano gli Stati dai loro obblighi internazionali; l’accesso al territorio alle persone bisognose di protezione dovrebbe pertanto essere sempre garantito”.

Ed è appunto il diritto alla protezione di coloro che fuggono da guerre e persecuzioni che non è stato garantito in Italia in questi anni. Non sempre almeno. Da quando, proprio con il caso Hirsi , è iniziata nel nostro paese la politica dei respingimenti verso la Libia, sulla base dei trattati di collaborazione siglati a suo tempo con Gheddafi dal governo Berlusconi, l’Italia ha dichiarato l’impossibilità di identificare i migranti in mare negando a molti, che probabilmente ne avevano diritto, la protezione internazionale. Per troppo tempo il Governo italiano ha finto di non sapere dei campi di detenzione nel deserto libico che attendevano i migranti una volta rimpatriati. Ora sembra aprirsi una nuova fase, stando a quanto affermato dal Presidente del Consiglio Mario Monti : “Questa sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sarà naturalmente esaminata con la massima attenzione dal Governo italiano. Si riferisce ovviamente a casi del passato, anche alla luce dell’analisi di questa sentenza prenderemo decisioni per quanto riguarda il futuro. Osservo inoltre – ha continuato Monti – che in occasione della mia recente visita a Tripoli questi temi, relativi all’immigrazione, sono stati oggetto di particolare attenzione nelle conversazioni tra il Governo libico e il Governo italiano”. E il ministro della cooperazione Andrea Riccardi ha aggiunto: “prenderemo insieme visione della sentenza e capiremo che fare. Il Governo vuol fare una politica chiara, trasparente e corretta sull’immigrazione”.

Finisce dunque un’epoca in cui l’Italia è stata il “cane da guardia” della frontiera meridionale dell’Europa: pochi dei migranti che raggiungono clandestinamente l’Italia ambiscono a restarvi, per molti il nostro paese è solo una tappa di passaggio verso la Francia o la Germania e in Italia, almeno fino alla guerra in Libia, la percentuale di clandestini giunti via mare nel nostro paese era attorno al 15%. Un problema non solo italiano dunque, quello dell’immigrazione clandestina dai paesi del sud del mondo, bensì un problema di tutta l’Unione Europea. Purtroppo spesso in questi anni è mancata, anche in materia di immigrazione, una politica comune, delegando ai paesi più esposti al fenomeno, tutto l’onere di trovare delle soluzioni. Ma è evidente che i fenomeni migratori che stanno interessando il nostro continente sono un fenomeno epocale e troppo vasto perché un solo paese, nonostante il pugno duro della Lega e del passato governo, possa opporvisi. Il rischio è quello di lasciare il campo libero a movimenti apertamente razzisti agevolati da una politica che, incapace di appassionare, usa la paura dell’Altro, per mobilitare le masse.

Quello che servirebbe è dunque una strategia comune di tutti gli Stati membri che sia in grado di dar vita a un nuovo modello di integrazione. Solo un anno fa (febbraio 2011) il Primo Ministro inglese Cameron dichiarava al mondo: “Il multiculturalismo ha fallito. Sotto la dottrina del multiculturalismo di Stato, abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l’una dall’altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società, alla quale sentissero di voler appartenere”.

E’ evidente che il nostro modo di rapportarci all’Altro, allo straniero, è fallito. Da una parte il modello del multiculturalismo, come Cameron ha riconosciuto, ha contribuito a isolare le comunità etniche lasciando che si chiudessero in se stesse, in una sorta di “gabbia culturale”, non riuscendo a concepire che talvolta, i membri di un’altra etnia, possono rifiutare le convinzioni sociali proprie della loro stessa cultura, e trovare proprio nel concetto “occidentale” di diritti umani un catalizzatore contro le costrizioni culturali di cui vogliono liberarsi. Dall’altra parte il modello dell’ universalismo nella sua versione “liberista”, ha preteso di esportare la democrazia e il concetto “occidentale” dei diritti umani imponendo di fatto una visione di parte : il modello culturale dell’Occidente come universalmente valido per tutti i popoli e le culture del pianeta. Un modello eurocentrico capace di tollerare l’Altro solo finché esso è l’altro della cucina etnica, del folclore ecc. ; ma è pronto a giudicarlo un barbaro o un terrorista non appena viene a contatto con l’Altro reale, con le sue irriducibili differenze e con le sue rivendicazioni, anche e soprattutto politiche. In questi anni la politicizzazione delle lotte per il riconoscimento delle identità ha nascosto il fatto che mai come nel nostro tempo, esiste un’omologazione e uno sradicamento culturale quasi totale causato dalla diffusione planetaria del sistema del turbo capitalismo globalizzato che sembra essere diventato l’unico orizzonte possibile della vita umana.

E’ chiaro che la società europea sarà sempre di più una società multirazziale, anche in Italia. Urge dunque un modello di integrazione che non sia imposto dalla cultura dominate, né porti ad una vita da “separati in casa” per le varie etnie presenti su un territorio in cui, la mancata condivisione di culture e valori, rischia di trasformarsi in ignoranza reciproca o addirittura in odio. C’è bisogno di un’integrazione che nasca da una lotta comune per la ricostruzione di una nuova identità. Se è vero che la crisi che stiamo vivendo sembra a prima vista solo di natura economico-finanziaria, essa è in realtà, anche una crisi culturale e politica. Quest’Europa in crisi di identità può essere facile preda (e le avvisaglie si leggono ogni giorno sui quotidiani), di nuove forme di razzismo. Probabilmente l’unica via di uscita è la lotta comune per la realizzazione di un nuovo progetto condiviso da tutti. Una lotta che unisca, anziché dividere. Nel nostro mondo globale, anche i problemi divengono globali e, quindi, problemi di tutti: dalla questione ambientale, a quella economica, i temi da mettere sul tappeto per una nuova rivendicazione dei diritti nel ventunesimo secolo non mancano affatto.

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