– Ci siamo conosciuti nel 1968, a Valle Giulia. E abbiamo cementato la nostra amicizia il 16 marzo dello stesso anno: con gli scontri a Giurisprudenza.
– Avete partecipato ai tafferugli di Valle Giulia?
– Tafferugli? Lei li chiama tafferugli… C’era speranza, c’era rabbia. Un’epoca nuova che sorgeva alla fine dell’età oscura.
– Avete partecipato?
– Certo. È Storia. Io e tutta la mia organizzazione. Ci eravamo autosciolti qualche anno prima, ma esistevamo ancora nei nuclei portanti.
– Suona strano, se penso al Sessantotto non mi vengono certo in mente bandiere nere e inni al Duce.
– Farebbe meglio a pensare diversamente.
– Cosa c’entrate voi con il Sessantotto? Siete o non siete fascisti?
– Si fidi di me.
– È difficile fidarsi di un presunto assassino.
– Presunto, vostro onore, ha detto bene… Presunto.
Milano. È il maggio del 1985 e Franco Revel, capo di Lotta nazionale, teorico e militante dell’eversione “nera”, siede al banco degli imputati. È accusato di aver ucciso il camerata Stefano Guerra. Attraverso il suo racconto e le vicende di Guerra, Alberto Garlini ricostruisce un pezzo di storia dimenticata: l’eversione e la violenza neofascista, il rimosso del passato recente italiano. E lo fa a partire dal giorno in cui i due si conoscono: il 16 marzo 1968, durante gli scontri di Valle Giulia. La battaglia di Roma che dà inizio al Sessantotto. Quel giorno, i camerati marciano insieme ai “cinesi”. E sono gli ultimi a rimanere “dritti e fieri” quando la polizia attacca. La legge dell’odio (edito da Einaudi) fonde ricostruzione storica e racconto di formazione. Definito come «il Romanzo criminale del terrorismo nero», l’opera colma un vuoto storiografico e antropologico, perché se del terrorismo rosso si è detto e scritto molto, dell’eversismo neofascista si conosce ancora poco. Come ha scritto Benedetta Tobagi, «La legge dell’odio racconta con linguaggio vivido i bagliori di esaltazione e la quotidianità asfittica di “soldati” giovanissimi e sbandati, tra alcol, sesso e bravate, ragazzi che vogliono abbattere il sistema e vedono nell’“azione eroica” e nella “violenza purificatrice” l’unica possibilità di trovare un senso. Sentiamo pulsare la rabbia, l’ebbrezza quasi erotica della distruzione, la fascinazione per le armi e la morte.»
Con La legge dell’odio la collana Stile Libero di Einaudi si arricchisce di una nuova provocazione? Ne parliamo con l’autore Alberto Garlini, tra i curatori della manifestazione culturale Pordenonelegge, docente di scrittura creativa all’Università del Molise e già autore di Una timida santità (Sironi, 2002), Fútbol bailado (Sironi, 2004), Tutto il mondo ha voglia di ballare (Mondadori, 2007) e Venise est une fete (Christian Bourgois Editeur, 2010).
In Fútbol bailado, la narrazione intrecciava due eventi bui della recente storia italiana, il delitto di Pier Paolo Pasolini e lo scandalo del calcio scommesse del 1980. In Tutto il mondo ha voglia di ballare, l’obiettivo era spostato agli anni Ottanta, la cui icona diventava la figura di Pier Vittorio Tondelli. Con La legge dell’odio si torna ancora più indietro, agli scontri di Valle Giulia del 1968. La “battaglia” che segnò l’inizio del Sessantotto. Cosa l’ha spinta verso questa scelta?
Di solito scrivo libri che hanno come protagonisti degli scrittori, prima Pasolini e poi Tondelli. In un romanzo pubblicato per ora solo in Francia c’era invece Hemingway. Anche in questo caso avevo pensato come protagonista uno scrittore, Bruce Chatwin, perché pensavo che la sua prospettiva nomade potesse essere spendibile nella nostra precaria attualità. A un certo punto, mentre pensavo a questo romanzo, mi è venuto in mente di mettere in frizione il nomadismo di Chatwin con l’ideologia opposta, la stanzialità, ripensando alla frattura fondamentale dell’antropologia fra cacciatori raccoglitori e agricoltori. Pensai immediatamente a un colloquio-scontro con l’ideologia sangue e suolo, e quindi pensai al fascismo. Ma subito mi posi una domanda, cosa ne so io del fascismo. La risposta, a parte pochi cliché, fu: nulla. Cominciai a documentarmi, e da un romanzo su Chatwin con il cameo di un fascista, venne un romanzo su un fascista con un cameo di Chatwin.
Quanto tempo ha impiegato tra le ricerche storiche e la stesura dell’opera?
Allora ci sono voluti circa quattro anni e mezzo, di cui circa uno e mezzo di solo studio.
Il suo è una sorta di romanzo di formazione sulla violenza nera. Perché questo pezzo di storia non era mai stato raccontato prima? Sembra proprio che quelle foto che ritraggono i neofascisti davanti alla facoltà di Giurisprudenza, siano state volutamente fatte a pezzi e cancellate dalla memoria. Perché non se ne è mai discusso?
Credo che noi abbiamo una zona oscura sia della nostra coscienza che della nostra storia, che dobbiamo portare alla luce. Io la farei partire dal ribellismo, azioni estreme che non porteranno a nulla di concreto politicamente ma che vengono compiute come semplice sfogo di una rabbia altrimenti ingestibile.
La legge dell’odio esce in un momento storico particolare: il sindaco di Roma Gianni Alemanno mette sotto la sua ala protettiva i movimenti di estrema destra, così come il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà; la violenza nera torna prepotente in tante nostre città (la strage dei due senegalesi uccisi a Firenze dal militante di destra Gianluca Casseri; la spedizione contro i Rom del campo della Continassa, alle Vallette di Torino, per uno stupro inventato). È soltanto una coincidenza?
Credo che siamo di fronte a una perdita di senso complessiva della politica. Siamo in un momento di crisi. Fino a ieri la politica che ci hanno insegnato era la trasformazione della rabbia sociale e del senso di ingiustizia in progetto di durata. In sostanza, il comunismo ci diceva: «è vero che sei sfruttato, è vero che vivi una vita da cane, ma non spaccare oggi la testa di chi ti sfrutta, metti piuttosto la tua rabbia a frutto, coordina i tuoi sforzi con quelli della tua classe sociale e un domani ci sarà la dittatura del proletariato, quindi un mondo perfetto.» Il cristianesimo diceva più o meno la stessa cosa: «non spaccare una testa oggi perché domani sarà tuo il regno dei cieli.» E il liberalismo, l’ideologia in cui siamo nati e cresciuti, variava il detto così: «non spaccare la testa di chi oggi ti sfrutta ma metti a frutto le tue capacità perché ti verrà data un’opportunità e potrai diventare ricco anche tu.»
Oggi, se una persona è cassintegrata, se non sa come sfamare i propri figli, a quale orizzonte politico può riferirsi per trasformare la sua rabbia in un progetto di durata? Per far, paradossalmente, diventare la sua rabbia e il suo senso di ingiustizia un progetto utile per la società? Sinceramente io non vedo niente. È quindi evidente il pericolo che la rabbia possa trasformarsi subito in violenza. E quindi il fascismo diventa paradigmatico. Il sacro manganello di Mussolini significava che l’azione veniva prima della parola, del pensiero. In sostanza, al di là dell’ideologia e del fascismo come concezione storica, credo che siamo di fronte a un periodo con un forte rischio di fascismo “antropologico”, non legato alla simbologia di destra, anarchico: persone senza orizzonti che hanno nell’azione violenta l’unico modo per sfogare la rabbia. I casi sono sotto gli occhi di tutti a partire dal norvegese Breivik, ma anche dagli atti di violenza pura e nichilista che vediamo nei cortei da parte dei cosiddetti black bloc.
A Valle Giulia c’era anche un altro aspetto rimasto nascosto per tanti anni: “rossi” e “neri” che si incontrano per organizzare insieme cortei e movimenti di protesta. Oggi che le ideologie sono gravemente in crisi, è rimasta soltanto la violenza fine a se stessa?
Il mio libro vuole essere un viaggio nella mente di un personaggio che subisce il fascino dell’azione e della violenza. Un viaggio in una zona oscura della nostra psiche, e della nostra stessa storia. Perché, non dobbiamo dimenticarcelo, quel tipo di antropologia è di tutti, la tentazione di rispondere con una rappresaglia a una presunta provocazione fa parte delle risposte umane a un problema, e d’altra parte in Italia abbiamo avuto il fascismo storico e il neofascismo. Non ne siamo immuni. Dobbiamo fare i conti con questa zona oscura, riportare il rimosso a coscienza. Credo di avere fatto una operazione simile a quella della psicoanalisi, riportare il rimosso alla luce, per poterlo in un certo senso gestire. Perché quelle pulsioni possano essere individualmente e socialmente fermate prima che si manifestino. Affrontare direttamente il problema e non lasciarlo strisciare sotto coscienza è l’unico modo, quanto meno, per porsi le giuste domande.
Il cinema italiano pare stia rielaborando il nostro rimosso collettivo. In questi giorni è nelle sale ACAB. All Cops Are Bastards di Stefano Sollima, sulla vita dei celerini vista dall’interno (tratto dal romanzo di Carlo Bonini). A marzo arriverà Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana (sulla strage di Piazza Fontana) e ad aprile Diaz – Non pulite questo sangue di Daniele Vicari (sul G8 di Genova e la «macelleria messicana» della scuola Diaz) appena apprezzato al festival di Berlino. Anche la sua opera si pone questo obiettivo?
La mia narrazione è totalmente autonoma. Ho inventato in qualunque momento mi sembrasse utile inventare. Non ho scritto in alcun modo un romanzo con intenti storici o cronachistici. Ce ne sono già milioni di saggi che si occupano della strategia della tensione e non volevo certo mischiarmi al lavoro degli storici e dei giornalisti, e scrivere l’ennesimo libro con una presunta verità su quegli anni. Io di presunte verità non ne ho. Sono un romanziere, scrivo fiction. Ho cercato piuttosto di lavorare sull’immaginario simbolico di una nazione, e quindi di entrare in risonanza con le stratificazioni storiche e interiori dei lettori. Tutto qui. Chi lo leggerà come una ricostruzione cronachistica credo che rimarrà molto deluso.
Dopo Valle Giulia, parla di “teoria dell’arcipelago”. Ci vuole spiegare cosa intende?
L’arcipelago è un tipo di trasmissione non gerarchica del comando a scopi eversivi. Semplicemente si mandano segnali simbolici alle altre isole dell’arcipelago, che capiscono quel particolare linguaggio. Una di queste isole poi agirà di conseguenza. Mi sembra un meccanismo molto attuale, quasi tutti i blog su Internet alla fine parlano a una piccola setta di adepti che capiscono quel particolare simbolismo. E che se a essere veicolati sono contenuti violenti, possono poi agire di conseguenza, senza un ordine preciso e diretto e nessuna particolare affiliazione.
Come in Fútbol bailado, in La legge dell’odio torna centrale la figura di Pasolini. Alla luce degli scontri di Valle Giulia, il poeta difese i celerini “figli del popolo” contro i “contestatori”. PPP descrive come la cultura di massa irrompa prepotente nel nostro mondo. Ai tempi di “indignati” e “Occupy Wall Street”, quanta attualità c’è in questo pensiero?
Credo molta in realtà, nonostante il pessimismo totale di Pasolini renda il suo pensiero difficilmente utilizzabile. Nella sua visione del mondo, almeno dopo l’abiura della trilogia della vita e con Salò, non c’era speranza. Cosa molto simile al momento attuale della politica.
La casa editrice francese Gallimard ha acquistato i diritti del suo libro. Al solito, si corre il rischio che in patria un’opera così importante passi inosservata. Comunque vada, è orgoglioso di come La legge dell’odio stia creando un precedente tutto italiano in Europa?
Moltissimo, la scrittura serve a questo: aprire prospettive, cogliere strati oscuri della coscienza, e farsi leggere anche all’estero è la prova che quello che si è scritto ha, come dire, un valore universale.
La legge dell’odio
Einaudi Stile Libero, 816 pp., 22 €