Al momento di consumarli vanno riscaldati un pochino (vi prego, non nel microonde!) per consentire alla sugna di sprigionare il proprio aroma.

INGREDIENTI PER  5 PERSONE
FARINA 00 500 gr.
SUGNA (STRUTTO) 150 gr.
LIEVITO DI BIRRA 1 cubetto
MANDORLE CON BUCCIA 200 gr.
PEPE NERO E SALE secondo i gusti (di pepe suggerisco non meno di 2 cucchiaini da caffè)

Sciogli il lievito con un dito d’acqua tiepida e aggiungilo a 100 gr. di farina, impasta, forma un piccolo panetto, incidilo a croce sulla superficie e mettilo a lievitare, dopo averlo coperto con un panno, in una ciotola.
Quando avrà raddoppiato il volume, aggiungi il sale, il pepe, la sugna (così com’è senza scioglierla) il resto della farina e tanta acqua tiepida quanto basta per ottenere un bel panetto da lavorare sopra il piano di lavoro.
Lavoralo almeno per 10 minuti e poi stacca tanti pezzetti da formare dei bastoncini grossi più o meno come una matita, e lunghi circa 15 cm.
Unisci i bastoncini, attorcigliali su se stessi e uniscili a ciambella. Decorali con le mandorle e mettili a lievitare, quando avranno raddoppiato il volume infornali a 180° fino a cottura completata cioè quando saranno belli dorati.
Questi taralli si conservano per molti giorni se chiusi ermeticamente.

La storia
Da dove nasca la parola tarallo, non si sa con certezza. Per cui si sprecano le ipotesi: c’è chi dice dal latino “torrère” (abbrustolire), e chi  dal francese “toral” (essiccatoio). Facendo riferimento alla sua forma rotondeggiante, qualcuno pensa che tarallo derivi invece  dall’italico “tar” (avvolgere), o  dal francese antico “danal”, (pain rond, pane rotondo).
La  tesi più attendibile vuole peraltro che  tarallo discenda dall’etimo greco “daratos”,  “sorta di pane”. Se  non è chiaro da quale etimo nasca  il tarallo, si sa invece dove cresce: sotto un panno che ne favorisce la lievitazione.
Nel ‘700, quando a Napoli nel Popolo regnava la miseria i fornai non si sognavano neppure di buttare via lo ”sfriddo”, cioè i ritagli, della pasta con cui avevano appena preparato il pane da infornare.
A questi avanzi di pasta lievitata aggiungevano un po’ di “nzogna” (la sugna: in italiano, lo strutto, il grasso di maiale) e parecchio pepe, e con le loro abili mani riducevano la pasta a due striscioline. Poi le attorcigliavano tra di loro, davano a questa treccia una forma a ciambellina, e via nel forno, insieme al pane.
In breve tempo il tarallo si impose anche grazie alla sua “economicità” e grazie agli osti che, proponendolo ai propri avventori ebbero modo di incrementare le vendite del vino a causa del notevole quantitativo di pepe che i fornai, forse conniventi, andavano sempre più ad aggiungere all’impasto.
E fu così che all’inizio dell’800 il tarallo fece il salto di qualità: si arricchì con le mandole che, sminuzzate nella pasta ed intere in superficie completarono la ricetta così come ci è stata tramandata
Una volta i taralli napoletani non aspettavano i clienti nei chioschi, o nelle panetterie, come oggi; gli andavano incontro per la strada.

Il “tarallaro” era una figura caratteristica. Con la sua cesta sulle spalle, batteva senza posa la città per vendere i taralli ai passanti. Oggi è sparito, ma quello che scompare nella realtà spesso sopravvive nel linguaggio: ancora adesso, per indicare una persona senza voce in capitolo, sbattuta di qua e di là dagli eventi, e costretta ad affaccendarsi senza sosta, si dice “me pare ‘a sporta d’o tarallaro!”

O’ tarallo profuma: è chiatto e tunno,
nasce a Napule, e va pe tutt’o munno.
Che tene? Pepe, ‘nzogna e past’e pane.
‘O panettiere ‘a forma ‘a fa ch’e mmane:
ncoppa ce mette ‘a mandorla, ch’è doce,
e nforna tutte cose: s’ha da coce.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *