Il governo Monti si appresta a varare il decreto sulle liberalizzazioni. La bozza sarà discussa oggi in Consiglio dei Ministri, mentre i diretti interessati sono già sul piede di guerra: emblematica la protesta dei tassisti, che stazionano davanti al parlamento ormai da qualche giorno.

Contestualmente il Ministro Fornero ha annunciato l’inizio della discussione sulle misure relative al mercato del lavoro, da cui sembra essere sparita la riforma dell’articolo 18. La proposta è quella di un contratto unico di inserimento, con l’obbligo di assunzione dopo 3 anni e meccanismi di penalizzazione per chi decide di licenziare durante il primo periodo.

Al di là degli interventi puntuali, sta affiorando in modo evidente il disegno innovativo del governo, che punta a correggere il difetto più evidente dell’economia italiana: la crescita del PIL. Il nostro paese, infatti, non produce più ricchezza ormai da diversi anni, ben prima dello scoppio della crisi. Le stime di crescita pubblicate ieri dal Fondo Monetario Internazionale non sono altro che l’ennesimo campanello d’allarme: secondo l’istituto di Washington il PIL si attesterà al -2,2% nel 2012 ed a -0,6% nel 2013, abbattendo le stime inverosimilmente ottimistiche formulate lo scorso settembre (rispettivamente pari a +0,3% e +0,5%). In Italia, come in Europa, anche i più intransigenti sostenitori del rigore dei conti pubblici come viatico per la stabilità finanziaria si stanno rendendo conto che la strada verso la sostenibilità nel lungo periodo passa inevitabilmente dalla crescita del reddito, in grado di rassicurare una volta per tutte i mercati.
Del resto tale approccio è dimostrato dalla storia recente: l’Irlanda, ad esempio, ha adottato negli anni 2000 un sistema fiscale estremamente lascivo, coadiuvato da un livello d’indebitamento privato a dir poco allarmante, ma la crescita del PIL all’8% annuo metteva tutti d’accordo, mercati e liberisti. La lezione irlandese, in seguito allo spaventoso crack del 2008 con tanto di nazionalizzazioni bancarie e licenziamenti massicci, insegna sicuramente che il bilancio deve essere in ordine, ma anche che un tasso di crescita sostenuto può aumentare la fiducia internazionale in tempi rapidissimi.

In questo quadro le liberalizzazioni proposte dal governo rappresentano un tentativo importante per scuotere il sistema produttivo italiano, imballato in una serie di vincoli spesso anacronistici e contrari a qualunque principio di efficienza, anche se non tutti gli interventi potrebbero risultare efficaci. Nella bozza presentata è possibile individuare due grandi categorie di misure: quelle volte ad incrementare il grado di concorrenza nei servizi, in cui l’obiettivo principale è abbattere i costi per gli utenti finali, e quelle finalizzate a favorire l’ingresso in determinati settori di un numero maggiore di persone. In entrambi i casi la parola d’ordine è “maggiore concorrenza”, ma gli effetti possono risultare sostanzialmente differenti.

Sotto il primo aspetto ricadono gli interventi con cui si intende ridurre l’incidenza di posizioni monopolistiche che, sulla base della teoria economica, influenzano il mercato determinando un aumento generale dei prezzi. La proposta sui distributori di benzina, i cui gestori potranno rifornirsi liberamente da qualunque fornitore “per la parte eccedente il 50% della fornitura”, è volta proprio a contrastare il comportamento di “cartello” tra le grandi compagnie, che si accordano sui prezzi per mantenerli sopra i livelli di concorrenza. Nella stessa direzione vanno gli interventi sulla separazione tra gestore della rete di distribuzione del gas (SNAM) ed i fornitori, sulla trasparenza nelle polizza RC auto e sulle commissioni bancarie. Un altro ambito è quello delle farmacie, che dovrebbero avere orari più flessibili, ma resta invariato il limite di un esercizio ogni 3.000 abitanti, mentre non si parla di parafarmacie.
Sullo stesso tema spicca l’obbligo per i medici di base di indicare nelle ricette il farmaco equivalente a quello indicato, permettendo un risparmio notevole per le famiglie. Misure di questo tipo incoraggiano senza dubbio la concorrenza, andando a colpire i profitti di alcune categorie di imprese spesso multinazionali, quali compagnie petrolifere, assicurazioni, istituti bancari e case farmaceutiche. L’obiettivo ultimo, seppur graduale nel tempo, è di generare un risparmio nei costi per tali servizi essenziali per i cittadini, che potrebbero in tal modo dirottare la propria spesa verso altri consumi e generare in tal modo maggiore reddito: le misure sono peraltro in linea con le indicazioni europee, in quanto molti paesi sono più avanti di noi su questo piano.

L’altra tipologia d’intervento riguarda le liberalizzazioni professionali: l’abolizione delle tariffe minime rappresenta la mossa principale per colpire il monopolio degli ordini, che senza dubbio determina costi maggiori per alcune prestazioni. La questione è molto delicata: in alcuni casi (si pensi ad esempio agli avvocati) l’abolizione delle tariffe comporterebbe certamente un diminuzione delle spese dei clienti, che cercheranno l’offerta più conveniente, ma d’altra parte potrebbe risentirne in modo drammatico la qualità del servizio. Gli ordini, infatti, svolgono una funzione di garanzia sui “prodotti”, come ad esempio accade per i giornalisti. L’intenzione della misura è di permettere ai giovani professionisti un inserimento più rapido nel mercato, in modo da poter sfruttare al meglio le proprie capacità. Il rischio, tuttavia, è che tale provvedimento risulti inutile, per il semplice motivo che i grandi gruppi di associati (studi, consorzi e simili) potrebbero sfruttare la propria forza commerciale, puntando sulla quantità e praticando tariffe talmente basse da impedire al singolo professionista di entrare nel mercato in questione.

Non meno importanti saranno le misure attese nel mercato del lavoro. Le politiche occupazionali, che mancano all’appello ormai da più di un decennio, rappresentano una sfida fondamentale per lo sviluppo economico del nostro paese: la proposta del contratto unico d’inserimento dovrebbe eliminare l’attuale frammentazione contrattuale (l’ISTAT ha censito 48 tipologie differenti) che provoca insicurezza e atteggiamenti fraudolenti da parte delle aziende. I sindacati sembrano aver accolto con favore la nascita di un dibattito anche sul reddito minimo garantito, strumento adottato da quasi tutti i nostri vicini europei. La difficoltà principale risiede nel far collimare la flessibilità, necessaria alle imprese per adeguare velocemente la produzione alle condizioni del mercato, con la certezza del reddito continuativo, che possa permettere ai lavoratori di investire nel futuro.

Gli effetti di questa impostazione non saranno certamente visibili nel breve periodo. Le misure per la crescita necessitano per definizione di tempo per entrare a regime, motivo per cui i governi “eletti” sono restii a confrontarsi con tali argomenti, non potendo sfruttare un vantaggio elettorale immediato. Questo governo, non essendo sottoposto a simili vincoli, sta portando avanti un progetto coerente con un’impostazione economica ben definita, che può essere apprezzata o criticata: quantomeno si sta discutendo di “politica”, fatto per niente scontato fino a qualche mese fa.

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