Esattamente due anni fa, il terremoto che sconvolse Haiti entrò nelle nostre case. Le immagini che scorrevano in Tv ci facevano conoscere un paese devastato che soffriva ancora di più, con centinaia di migliaia di morti e rovine ovunque.

 

 

Il passato coloniale alle spalle ha tracciato un destino infausto fatto di povertà, fame, miseria per questo che è uno dei paesi meno sviluppati al mondo, un’isola infelice in mezzo ai Caraibi, niente a che vedere con la vicina e più nota Repubblica Dominicana.

Il terremoto del 12 gennaio del 2010 ha risvegliato negli haitiani la paura vissuta di recente a causa di un’altra calamità naturale, l’uragano Jeanne nel 2004.

Un susseguirsi di condizioni avverse, insomma, per Haiti che l’hanno fatta tristemente conoscere al mondo.

Subito dopo il terremoto, una catena di solidarietà internazionale, con l’intervento delle Nazioni Unite e delle più importanti organizzazioni umanitarie, ha acceso i riflettori su un paese lacerato da sempre dalla povertà, e in particolare su Port- au-Prince, la capitale, che è stata colpita in modo particolare dal sisma, visto che l’epicentro era localizzato a pochi chilometri dalla città.

 

Un fotografo italiano, Marco Baroncini, a quasi un anno dal terremoto, nell’autunno del 2010, si è recato ad Haiti per cercare di capire, con i propri occhi, a che punto fosse la ricostruzione. Un libro e una mostra, “Waf Jeremie, l’inizio della sprenza”, che verrà inaugurata a Roma (a Palazzo Valentini) l’11 gennaio, raccontano la realtà che è riuscito a catturare e l’incontro speciale con una missionaria, Suor Marcella, che sta compiendo un piccolo miracolo a Waf Jeremie, il quartiere più povero di Port-au-Prince.

Ci racconta la sua esperienza e cosa lo ha impressionato di più. «Sono arrivato ad Haiti per documentare la situazione a quasi un anno dal terremoto. Girando per diverse settimane per la capitale, Port-au-Prince, e per le altre zone maggiormente colpite, mi sono trovato di fronte a situazioni veramente drammatiche. La prima cosa che mi ha colpito di più è stato vedere  la gente che aveva ricominciato a vivere, ma in mezzo alle macerie. Il centro di Port-au-Prince era diventato un mercato a cielo aperto, con le bancarelle tra edifici pericolanti e masse di detriti».

 

Quando è avvenuto l’incontro con Suor Marcella e come ha cambiato il corso del tuo reportage ad Haiti.

«Come in genere faccio, andando per lavoro in giro per il mondo, ho cercato una storia dalla quale partire per raccontare e documentare la realtà. Le storie nelle quali mi imbattevo avevano bisogno di poche parole, bastava guardare negli occhi le persone che incontravo per comprenderne le difficoltà che stavano affrontando. C’è stato però un incontro che, più di altri, è andato dritto al cuore, quello con Suor Marcella. Di lei e del suo lavoro nel quartiere ghetto di Waf Jeremie, dove io stavo cercando di sviluppare il mio lavoro di reporter, mi avevano già parlato, la conoscono in molti a Port-au-Prince. Incontrarla di persona e vederla all’opera è stata però la vera sorpresa. Non è stato semplice introdurmi in quel contesto. Ciò che mi ha guidato nell’intraprendere il lavoro e portarlo avanti fino in fondo, oltre alla curiosità e all’interesse giornalistico, è stata la certezza che valesse la pena impegnarsi per far scoprire quella realtà così drammaticamente complessa, ma altrettanto ricca di umanità. Se Waf era dato per perso dalle autorità, l’incontro con suor Marcella mi ha fatto capire che invece aveva molto da dare e che non era affatto un luogo “perso”».

Com’è nata l’idea del libro. «L’idea di realizzare un progetto insieme che potesse far conoscere e quindi aiutare quella terribile realtà è stata immediata. Certe affinità si sentono subito o non si sentono. Ho così potuto portare avanti il mio reportage a Waf e rientrando in Italia ne ho parlato con l’editore, Graffiti, sensibile alle tematiche sociali, con il quale avevo già pubblicato dei libri collettivi. L’idea ha riscontrato un’ulteriore disponibilità e così è partita la macchina organizzativa che ha permesso di trovare anche uno sponsor per realizzare la mostra. L’obiettivo è quello di sostenere le attività di suor Marcella attraverso la vendita dei libri, il cui ricavato, ci tengo a sottolinearlo, andrà interamente a sostegno di questa causa».

 

Il risultato, secondo noi, è straordinario. “Waf Jeremie, l’inizio della speranza” (Graffiti 2011) è un libro che punta dritto al cuore, con il bianco e nero che coglie la drammaticità delle condizioni di vita della gente di Waf e il colore, nella parte finale del libro, che sottolinea invece la speranza rappresentata dalle attività di suor Marcella, che ci auguriamo continuino e siano sempre di più.

 

Il contesto

Waf Jeremie, o Waf come viene chiamato dai suoi abitanti, è uno dei quartieri più poveri di Port-au-Prince, dove circa 150.000 persone  vivono in condizioni di miseria assoluta in baracche di lamiera e poche casette di mattoni, allagate di frequente dalle alluvioni. E’ sorto più di dieci anni fa su una discarica tra il mare e un fiumiciattolo di acqua nera. In tutta la baraccopoli non esistono servizi igienici, né fognature, né condutture d’acqua. L’elettricità c’è solo nella zona del porto dove si trovano alcuni piloni dell’alta tensione a cui la gente del posto cerca di attaccarsi. Uno dei primi focolai del colera a Port-au-Prince, nel novembre 2010, è scoppiato proprio a Waf Jeremie, per le scarse condizioni igieniche. Waf è una delle zone interdette dalle Nazioni Unite a causa della sua pericolosità e per la difficoltà di accesso e fino ai giorni del terremoto non si trovavano organizzazioni disposte a seguire progetti di sviluppo nell’area. Fino a quel tragico 12 gennaio 2010, giorno del terremoto che causò più di 300mila morti nel paese, una delle poche presenze all’interno della baraccopoli di Waf era quella di Suor Marcella, missionaria francescana infermiera, che vive nel quartiere dal 2004 sviluppando e portando avanti progetti concreti in aiuto della popolazione.

Grazie alla rete di donazioni, Suor Marcella è riuscita a costruire 122 case di mattoni, una scuola, un refettorio sociale che ogni giorno dà circa 300 pasti ai bimbi della baraccopoli, due batterie di latrine, un punto distribuzione acqua; ha inoltre ricostruito la clinica, distrutta dal terremoto, un centro colera, una serie di botteghe artigiane e una casa di accoglienza per i bambini resi orfani dal terremoto.

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