Il decreto svuotacarceri del ministro Severino non piace all’ex pm Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei Valori, perché, a suo dire, consentirà anche agli amministratori corrotti di non finire in carcere o di uscirne.
Nessuno, invece, ha sollevato la pur minima obiezione sulla reale efficacia del decreto rispetto all’obiettivo dichiarato. Perciò Golem ha chiesto un parere a Luigi Morsello, ex direttore di carcere ora in pensione. L’articolo lo trovate tra quelli in evidenza questa settimana.
L’occasione, però, è utile per una riflessione più complessiva sui cosiddetti reati contro la pubblica amministrazione. Delitti per i quali, in realtà, in carcere non ci finisce quasi nessuno, anche tra i condannati. L’unica possibilità di trascorrere qualche tempo in galera, per chi commetta uno dei delitti di questo tipo, è quella di essere arrestati prima del processo. Insomma, la custodia cautelare. Che dovrebbe essere un’eccezione, nella teoria di qualunque sistema giuridico, dal momento che – quanto meno – in caso di assoluzione (sempre possibile, sia perché innocenti sia perché colpevoli senza prove sufficienti) espone lo Stato a dover risarcire la detenzione sofferta.
Ciò che un governo che si presume – o si spaccia – per tecnico potrebbe fare (e che non farà) è invece una riforma in parte sostanziale e in parte procedurale per questo tipo di delitti.
Tanto per cominciare, invece di concepire il processo e la pena come una vendetta (cosa che accade quasi sempre in Italia), basterebbe comprendere che l’interesse collettivo, in riferimento ad un pubblico amministratore corrotto, non è tanto quello di fargli scontare 2 o 3 anni di carcere (che tanto non sconterà) ma quello di non averlo più tra i piedi. E allora sarebbe sufficiente rendere immediatamente esecutiva la sanzione accessoria, sempre connessa alla condanna per delitti contro la pubblica amministrazione, dell’interdizione dai pubblici uffici. Anche se soltanto per 3 o 4 anni, già sarebbe un passo avanti.
In secondo luogo, si può sostituire, per questo tipo di delitti, alla pena detentiva la condanna a svolgere, per un pari numero di anni, lavori di pubblica utilità. Questo avrebbe due effetti immediati: ammesso che i colpevoli finiscano in carcere, contribuirebbe a svuotarli. E poi consentirebbe di risparmiare centinaia di euro al giorno per ogni condannato. Un detenuto infatti costa allo Stato circa 350 euro al giorno. Se invece lo destiniamo a lavori utili, naturalmente retribuiti come prevede anche la Costituzione, al massimo lo pagheremmo 80 euro al giorno, con un risparmio netto di circa 300 euro. Senza contare il beneficio indotto per la collettività.
Si tratta, in tutti e due i casi, di riforme che non contrastano con alcuno dei nostri principi di diritto sostanziale e processuale.
Sarebbero poi possibili anche altri piccoli aggiustamenti. Ma prima di arrivarci, è utile capire il “sistema” dei delitti contro la pubblica amministrazione. Perché una cosa che i legislatori degli ultimi venti anni sembrano ignorare è che qualunque intervento sul diritto andrebbe pensato rispetto al sistema complessivo nel quale si cala.
I delitti contro la pubblica amministrazione sono quelli previsti in tutto il Titolo II del codice penale, che si divide in tre Capi: il primo comprende i delitti (nel parlare corrente si dice sempre reati, ma in realtà un conto sono i delitti un altro i reati: i reati possono anche essere contravvenzionali – ad esempio i reati di violazione ai regolamenti di polizia – i delitti no. La conseguenza principale è che per i reati è quasi sempre ammessa l’oblazione, mentre per i delitti mai. Insomma: “delitto” è un termine molto più… grave di “reato”), il primo Capo, dicevo, comprende i delitti del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione (dall’articolo 314, peculato, all’articolo 335, violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro). Il Capo secondo riguarda i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione e va dall’articolo 336 (violenza o minaccia a pubblico ufficiale) all’articolo 356 (frode nelle pubbliche forniture). Il Capo terzo riporta disposizioni relative a tutti e due i Capi precedenti e va dall’articolo 357 (Nozione di pubblico ufficiale) al 360.
L’articolo 360 in particolare prevede l’ipotesi della cessazione della qualità di pubblico ufficiale: questo è un articolo molto interessante e spesso sottovalutato anche dai giudici che dimostra come chi ha fatto il nostro codice penale fosse mille volte meglio di chi, negli anni successivi, ha tentato di riformarlo.
All’articolo 360 si afferma che anche quando un pubblico ufficiale non lo è più, ad esempio perché è andato in pensione, se commette un delitto contro la pubblica amministrazione logicamente “agganciato” alla sua precedente qualifica, deve essere processato come se fosse ancora un pubblico ufficiale effettivo – pensiamo al caso di un ex assessore all’edilizia, non più eletto e dunque ormai privato cittadino, che però grazie ai rapporti conservati con l’ambiente politico fa da mediatore per corrompere il nuovo assessore e ottenere una licenza per un amico: deve essere processato facendo riferimento alle pene più severe previste per il pubblico ufficiale.
Sto divagando troppo, lo so, ma il diritto penale ha molto di filosofia, ed è quello che oggi anche i magistrati non considerano più.
Torniamo ai delitti contro la pubblica amministrazione.
Il problema è che tutti, nessuno escluso, i delitti contro la pubblica amministrazione sono puniti con pene il cui minimo edittale è molto basso, sebbene il massimo sia, invece, a volte, molto alto.
Tutti i delitti contro la pubblica amministrazione vengono puniti con pene che possono oscillare tra i 6 mesi e i 3, 4, 5 o anche 6 anni.
In pratica la differenza tra minimo della pena e massimo della pena è spesso molto consistente.
Basti pensare che la corruzione per atto proprio (articolo 318), ossia prendere denaro in cambio di un atto che si sarebbe comunque dovuto adottare, è punita con una pena che va da 6 mesi a 3 anni. Ossia il massimo è 6 volte superiore al minimo. Mentre la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (articolo 319) è punita con la reclusione da 2 a 5 anni. L’abuso d’ufficio (323) va da 6 mesi a 3 anni, l’omissione di atti d’ufficio (328) da 6 mesi a 2 anni, l’interruzione di pubblico servizio (340) fino a 1 anno – e perciò si può essere condannati anche a 20 giorni di reclusione – , il millantato credito (346) nell’ipotesi più grave – che è quella in cui il millantatore riesce ad ottenere anche solo la promessa di denaro in cambio di qualcosa – da 2 a 6 anni (e qui andrebbe fatta una riflessione perché vuol dire che il millantato credito è considerato più grave della corruzione per atto contrario, che arriva ad una pena massima di 5 anni pur partendo dagli stessi 2 anni). L’ultima osservazione, sul punto: la turbata libertà degli incanti (353), che è il comportamento di chi convince, con denaro o altro, imprenditori a non partecipare ad una determinata gara d’appalto per lasciare a lui campo libero (magari in cambio di un accordo reciproco sulla gara successiva) è punita con la reclusione FINO a 2 anni. Quindi un eventuale colpevole potrebbe essere condannato anche a soli 2 mesi.
Questo fa capire come il nostro codice penale, per quanto ben fatto, sia vecchio: un tempo, negli anni Trenta – quando fu pensato il codice – determinati comportamenti erano assai rari, anche perché materialmente difficili da mettere in pratica. E dunque non rappresentavano una “emergenza” per il legislatore che, di conseguenza, non sentì il bisogno di ricorrere a sanzioni severe.
Oggi, ovviamente, la musica è cambiata. Ma nonostante si faccia un gran parlare di riforme della giustizia e del diritto penale, di queste cose nessuno ne parla mai.
Insomma, tra tutti i 46 articoli che prevedono delitti contro la pubblica amministrazione quello che riporta le pene più alte è il 317, che punisce la concussione. Ma anche in questo caso il minimo è 4 anni e il massimo 12.
In sostanza, NESSUN delitto contro la pubblica amministrazione ha una pena MINIMA edittale superiore ai 4 anni.
Questo dato oggettivo va messo insieme con uno dei principi fondamentali del nostro diritto penale: il giudice, nel determinare la pena, può scendere anche al di sotto del minimo edittale.
Ci possono essere cioè diversi casi in cui le attenuanti prevalenti sulle aggravanti, o anche soltanto la scelta di riti alternativi come giudizio abbreviato e più ancora patteggiamento, soprattutto se uniamo la scelta del rito alternativo, che prevede lo sconto di un terzo di pena, alle attenuanti prevalenti, che pure comportano lo sconto di un terzo della pena, otteniamo – ad esempio – che un sindaco colpevole di concussione, e pure arrestato in flagranza, e che si è fatto 8 mesi tra carcere e arresti domiciliari prima del rinvio a giudizio, che però poi sceglie il rito abbreviato e al quale il giudice riconosce, sulla base degli atti, le attenuanti prevalenti sulle aggravanti, venga condannato a una pena di 2 anni e 8 mesi.
Questo perché il nostro codice di procedura penale prevede che gli sconti di pena il giudice debba applicarli sulla pena una volta determinata in astratto. In pratica deve ragionare così: “questo sindaco è certamente un poco di buono, ma in questo caso si è trovato in una situazione difficile, è assolutamente incensurato e per il passato si è sempre comportato bene. E poi la tangente era di appena 5mila euro. Il codice mi dice che posso condannarlo ad una pena che va da 4 a 12 anni, e io credo che sia giusto condannarlo alla metà del massimo: 6 anni. A questo punto però devo applicare lo sconto di un terzo perché ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato e ha fatto risparmiare tempo e denaro alla giustizia che già non ce la fa (questa è la filosofia dello sconto per la scelta del rito). Dunque, 6 anni sono 72 mesi, un terzo di 72 è 24, 72 meno 24 fa 48, quindi 4 anni. Ah già – deve dire sempre il giudice nel suo ragionamento – ma io ho detto pure che in fondo questo in passato sembrava una brava persona e non gli posso negare lo sconto delle attenuanti. E allora i 48 mesi devono essere ridotti di un altro terzo, ossia di 16 mesi, e 48 meno 16 fa 32 mesi: 2 anni e 8 mesi”. A questo punto il nostro giudice si potrebbe trovare in imbarazzo con se stesso: “ma come – potrebbe chiedersi – questo ha obbligato l’imprenditore a dargli 5mila euro, che vabbè che non sono tanti e che lui in passato si era sempre comportato bene, ma mo’ addirittura 2 anni e 8 mesi che manco se li va a fare…”. E allora il giudice potrebbe concludere, prima di uscire dalla camera di consiglio: “Ma ora sai che faccio? Gli dò 4 anni e non se ne parla più. E invece che da 6 parto da 8”.
Poi però succede che, nello scrivere la motivazione della sentenza, ripete pari pari quelle cose che si era detto, e che erano state oggetto del processo, circa il comportamento di fatto dell’imputato e le attenuanti. E allora l’avvocato, tutto contento, si prende la sentenza e gli piazza un bell’appello per ottenere la revisione della pena sulla base proprio di quelle argomentazioni.
La Corte d’appello, dal canto suo, non vuole fare la parte di quella che si fa infinocchiare e credendosi furba conferma la sentenza di primo grado.
A questo punto l’avvocato, sempre più contento perché la parcella aumenta, gli scrive un ricorso per Cassazione e invoca l’annullamento con rinvio della sentenza d’appello per illogicità della motivazione (nel senso che se quella è la pena, quella non può essere la motivazione, se invece quella è la motivazione, quella non può essere la pena).
La Cassazione si guarda un po’ le carte del processo, sbuffa pensando al fatto che si deve mettere a scrivere perché il ricorso è fondato e non può dichiararlo inammissibile, e se ne esce con una bella sentenza di annullamento con rinvio ad altra sezione della corte d’appello specificando nel principio di diritto che la corte dovrà provvedere a rideterminare la pena alla luce delle ineccepibili argomentazioni svolte in motivazione. Perché lei, la Cassazione, mica si può mettere a fare i conti sulle pene: il codice di procedura penale dice che questo è merito, e ci deve pensare il giudice di merito. L’unica cosa che potrebbe fare è annullare senza rinvio, e dunque, di fatto, decretare l’assoluzione, se dalle carte fosse venuto fuori che la cosa proprio non stava in piedi.
E così si torna in appello, si rifà il processo in tre o quattro udienze, perché ormai c’è poco da dire, e si arriva finalmente alla condanna alla quale si sarebbe dovuti arrivare subito, visti i ragionamenti del primo giudice (giusti o sbagliati, lasciamo stare: diciamo giusti alla luce di quanto emerso al dibattimento). Il sindaco, ormai magari ex, si becca 2 anni e 8 mesi per una concussione commessa, a questo punto, sette o otto anni prima (nella migliore delle ipotesi di… durata di tutta la storia). La gente intanto lo ha visto passare dal comune alla provincia, e magari al Parlamento. E in tutte le campagne elettorali lui parlava di quel processo che aveva in corso ma, diceva, “si è innocenti fino a prova contraria – ripeteva sempre – e io non ho fatto niente, quei soldi non li avevo chiesti, mi erano stati offerti e li ho dati al partito, ho solo violato la legge sul finanziamento dei partiti” (come se ci fossero leggi che si possono violare con maggior leggerezza d’animo). Naturalmente poi aggiungeva qualche considerazione del piffero sulle toghe rosse, sull’attacco alla democrazia del partito dei giudici, sull’asse delle procure e così via. E andava da un Ballarò a un Porta a Porta. E quando infine arriva la condanna a 2 anni e 8 mesi per quella vecchia storia lui tuona: “E’ una sentenza ad orologeria! Proprio ora che alla Camera ho presentato un disegno di legge per la riforma della giustizia! Ci sono delle potenti lobby che si nascondono sotto le toghe!”. E ovviamente l’avvocato, per perdere tempo, che a questo punto pure lui è diventato un personaggio pubblico, un po’ segaligno, con gli occhialetti e l’aria furbetta, annuncia un nuovo ricorso in Cassazione.
Ecco perché servirebbe la provvisoria esecuzione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici: per costringere Porta a Porta a trovare altri ospiti…
Passa un altro annetto e questo secondo ricorso viene, com’era prevedibile, dichiarato inammissibile e la pena diventa finalmente definitiva (la condanna a pagare 2mila euro alla cassa delle ammende resta lettera morta perché tanto nessuno paga e nessuno glieli chiede).
Sono passati 10 o 11 anni dal fatto. Sono cambiate nella migliore delle ipotesi due legislature. Non dimentichiamo che, nel nostro esempio, l’ex sindaco ora parlamentare era stato arrestato in flagranza e si era fatto 8 mesi di custodia cautelare prima del processo. Dunque gli restano 2 anni. Che anche senza il decreto della buona Paola Severino, e senza l’esclusione dei reati – come li chiama Di Pietro – contro la pubblica amministrazione, non andrà mai a scontare davvero.
Dopo 5 anni, trascorsi senza macchia e senza paura, sempre l’avvocato magrolino segaligno con gli occhialetti presenta pure un’istanza di riabilitazione che, ovviamente, per legge, viene accolta.
Tutto finito, tutto cancellato. Si può ricominciare da capo.
Cosa ci insegna questa storiella? Cosa dovrebbe insegnare ai ministri della Giustizia? Che il problema non è escludere o includere determinati “reati” (meglio sarebbe “delitti”): anche se la richiesta di Antonio Di Pietro circa l’opportunità di escludere i “reati” contro la pubblica amministrazione dal decreto del ministro Severino che prevede la sospensione del procedimento e la messa in prova per i reati per i quali si è stati condannati a pene detentive non superiori ai 4 anni, cosa cambia, in concreto?
Invece di continuare a navigare in questo minestrone di demagogia e ignoranza (anche il ministro Paola Severino, non so fino a che punto abbia studiato la filosofia del codice penale), se davvero si volesse, una buona volta, risistemare il diritto penale per abbandonare i criteri del 1930 e adeguarlo a quelli del 2012, bisognerebbe anzitutto modificare, innalzandoli, i cosiddetti minimi edittali di pena. Se si vuole incidere in modo deterrente su determinati comportamenti criminosi non ha senso, come sempre invece si è fatto e si continua a fare, aumentare le pene massime lasciando invariate le minime.
Anche quando, sotto l’emozione dei furti nelle ville, si è introdotto l’articolo 624bis del codice penale, è stata prevista una pena da 1 a 6 anni: il minimo è sei volte inferiore al massimo. Quindi si può essere, nei fatti, condannati (con il discorso degli sconti che abbiamo fatto prima) anche a 8 mesi. A questo punto che differenza c’è con l’articolo 624 vero e proprio, che punisce genericamente il furto, il quale prevede come pena minima 6 mesi e massima 3 anni?
Per finire: se proprio si dovesse ritenere impossibile riformare in modo intelligente e adeguato ai tempi il codice penale (non sia mai che dobbiamo un’altra volta chiamare i tecnici al posto dei politici: non vorrei che fossimo costretti a fare presidente del Consiglio un detenuto, che più tecnico non si può…), basterebbe, tanto per cominciare, approvare una legge di un solo articolo, che inserisca un nuovo articolo nel codice penale: il 27bis (alla fine del Capo secondo del Titolo II che si occupa delle pene in generale): “Il giudice non può mai, per nessuna ragione, determinare una pena finale – ossia una pena effettiva tenendo conto dei criteri di determinazione applicati alla pena base stabilita per il delitto o per il reato – inferiore al minimo edittale previsto per il caso di specie”.
Sarebbe già un grande passo avanti.
Poi però, certo, resterebbe il problema delle carceri sovraffollate… Ma ecco che la destinazione dei condannati ai lavori socialmente utili arriverebbe in soccorso!