Anche quest’anno il Rapporto Italia dell’Eurispes fotografa le condizioni economiche e sociali del nostro Paese, diviso tra debolezze ormai evidenti ed isole felici di sviluppo ed eccellenza, da cui occorre tentare di ripartire dopo anni incredibilmente difficili.
Il lavoro, imponente dal punto di vista dei contenuti, è stato presentato giovedì presso la Biblioteca Nazionale a Roma, portando la consueta dote di domande e puntualizzazioni verso cui la classe dirigente, in particolare quella politica, non riesce ad offrire riposte convincenti. Il presidente Gian Maria Fara ha improntato le sue considerazioni generali sul «fantasma del nichilismo, che sembra ormai pervadere le Istituzioni e le coscienze dei nostri concittadini», di cui dobbiamo liberarci al più presto se vogliamo ricostruire un futuro sostenibile.
Fara usa parole forti per descrivere l’attuate fase di stallo italiana, spiegando come il pessimismo ed il rifiuto dell’autorità, da cui consegue «la sub-cultura del declino e della decadenza», influiscano sulle possibilità di recupero all’interno dello scacchiere internazionale, in primis europeo.

Il rapporto tra Italia ed Europa è infatti uno dei temi forti di questa pubblicazione. Attraverso un’analisi approfondita di molti temi, dalle normative in materia agroalimentare all’introduzione dei vincoli di bilancio, si estrae una visione complessa e variegata dell’attuale ruolo dell’Italia nello scenario comunitario.
Il Presidente non usa mezzi termini quando si tratta di criticare il disegno dell’unione economica e monetaria, specie quando sostiene che «l’euro, più che un punto d’appoggio, è diventato una vera e propria camicia di forza». La sopravvalutazione del euro, o meglio l’impossibilità di svalutare la moneta da parte del singolo paese, sta alla base della perdita di competitività che affligge la produzione italiana e giustifica l’affermazione del presidente Fara.
Si tratta dunque di problema “tecnico”, dettato dal funzionamento stesso della moneta unica, ma “tecnico” non vuol dire certo “incorreggibile”. Nonostante negli ultimi anni, infatti, sia passata l’idea che nulla si possa fare contro le grandi leggi economiche, quasi fossero assimilabili al moto delle stelle, esiste la possibilità di ridisegnare l’Europa e l’euro, ma occorre una volontà politica. È proprio questo aspetto a rappresentare la minaccia più grande, poiché il cittadino europeo non dispone di uno strumento per esprimere il proprio parere: è una questione di rappresentanza.

Se le parole di Fara lanciano un grido di allarme, i risultati del sondaggio Eurispes sul tema Europa dimostrano, sorprendentemente, che i cittadini si fidano ancora delle istituzioni comunitarie, visto che l’uscita dall’euro è auspicata dal 25% della popolazione, contro il 64% che invece chiede la permanenza.
Ad ascoltare le dichiarazioni di molti politici, invece, sembra che la moneta unica, o la permanenza stessa nell’Unione, sia l’ostacolo principale verso l’adozione delle riforme strutturali.
Questa tendenza a coprire i fallimenti ultra-ventennali attraverso il vecchio ma sempre affidabile scaricabarile non sembra più funzionare. Sintetizzare il sentimento comune verso l’Europa diventa dunque un esercizio difficile, tante sono le posizioni differenti, anche se in buona sostanza potrebbe trattarsi di un punto di vista semplice: l’italiano, mediamente, vuole stare in Europa e vuole tenersi l’euro, ma vuole tornare ad essere protagonista. Partecipare, in altre parole, non “subire”, come ricorda anche Fara: «Se vogliamo stare in Europa, dobbiamo starci da protagonisti e non da comparse».
Questo discorso non lascia spazio a facili demagogie anti-europee, per cui la soluzione di ogni male è un ritorno a politiche autarchiche, completamente anacronistiche. Quale potrebbe essere il peso di un’Italia allo sbando come quella odierna, al di fuori della zona Euro? Il ritorno ai vecchi meccanismi di svalutazione ed ingrossamento del debito possono davvero salvarci? La riflessione rimane aperta ma alcune domande ancora non trovano risposta.

Se lo scenario rimane come sempre apocalittico, nonostante l’invito ad uscire dal vortice del pessimismo distruttivo, sono ancora troppo pochi coloro che cercano di capire le radici profonde del disagio attuale. 

In altre parole, gli italiani vorrebbero capire quando, come e perché abbiamo smesso di essere protagonisti di questa Europa, visto che nessuno se ne è assunto la responsabilità politica. D’altra parte, gli sdegnati appelli affinché si attenuino le pressioni di Bruxelles arrivano dagli stessi politici che hanno firmato il primo Patto di Stabilità (la sinistra, nel 1997) e la sua revisione (la destra, nel 2005).
Il presidente Fara afferma, con buona dose di ragione, che queste ed altre iniziative sono state «il prezzo da pagare pur di essere accolti nel “salotto buono”», ma non ci si interroga sul perché non siano stati i nostri rappresentanti a decidere questo prezzo, rinunciando a scrivere le regole del gioco esprimendo i nostri bisogni nelle sedi che contano.
Ormai non se ne ricorda più nessuno, ma non è stato sempre così: l’Italia ha contribuito in modo determinante a mettere in piedi questo grande progetto, ma ad un certo punto si è fatta sottrarre il comando, smettendo di essere “centro” e diventando inesorabilmente “periferia”, per utilizzare una terminologia cara alle istituzioni di Bruxelles.

Il punto fondamentale risiede quindi nel malfunzionamento del meccanismo di trasmissione delle istanze, in quanto la politica, troppo occupata a difendere le poltrone oppure l’incolumità giudiziaria di qualche eletto, ha smesso di difendere i cittadini.
Questi ultimi, dal canto loro, non sono stati in grado di punire questi comportamenti attraverso lo strumento democratico, continuando ad accordare la fiducia delle urne a chi ha portato il Paese in questa situazione.
Il mancato protagonismo è dunque figlio dell’incapacità dei rappresentanti, che avrebbero potuto battersi per modificare le regole europee, ma non lo hanno fatto. Non è detto che il fenomeno non cambi in futuro, che l’Italia non sia in grado di recuperare il terreno perduto, perché, come afferma il presidente Fara, le potenzialità ci sono ed è ora di abbandonare il disfattismo a tutti i costi.
Il cambio generazionale della classe politica, che dovrebbe essere sancito definitivamente, impone nuove responsabilità a chi si proclama libero dal retaggio del passato, ma occorre che tale caratteristica sia confermata dai fatti.
Il Rapporto Italia, attraverso i suoi estesi contenuti, aiuta sia noi sia i futuri rappresentanti ad identificare le sfide che ci attendono. Le questioni, come anche in passato del resto, sono state poste: affrontarle e tornare a produrre benessere è compito, ineludibile, di chi otterrà il favore degli italiani.
http://www.eurispes.eu/content/sintesi-rapporto-italia-2014 

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