Questa in lavorazione a Sprusciàno (senza ancora un titolo e con una troupe formata da personaggi variamente abbrutiti dalla vita) è particolarmente sgangherata e rappresenta il livello zero del genere. Nel cast spicca Morena Dani, starlette di secondo piano ma che per avvenenza non ha nulla da invidiare alle più note Fenech, Cassini e Bouchet.
È proprio la presenza della bella del film ad accendere la miccia di una storia ritmata e irriverente legata alla finta vincita di un 13 miliardario che cambierà in maniera imprevedibile le vite dei protagonisti. A distanza di trent’anni, Federico è un uomo di successo e ci racconta la fine della vicenda, svelando come il destino, battendo strade tortuose e sbilenche, sia l’unico a comandare la partita. Come già ne L’eroe dei due mari, Pavone miscela con passione e lucidità gli ingredienti della migliore Commedia all’italiana: alla risata liberatoria fa da contraltare la riflessione amara e malinconica, ai riferimenti pop un lirismo intenso e calibrato in leggerezza. 13 sotto il lenzuolo è un affresco coinvolgente, in cui luoghi e caratteri si stagliano con straordinaria nitidezza. La Puglia, dai profumi e i cattivi odori ugualmente realistici, vive nella sua essenza di terra meticcia, fatta di meraviglie naturali e reminiscenze arcaiche, ma anche di abusi edilizi e piattume globalizzato. Federico Nugnes Peluso, “bravo ragazzo” gaudente e spregiudicato, di quelli che cadono sempre in piedi attraversa, con i suoi pregi e difetti, trent’anni di storia nostrana come fossero il corridoio di casa propria. Perché, ci piaccia o no, l’Italia gli somiglia molto.
Venerdì 17 settembre
1.
Il sud è un Ape car. Un trerrote. Avanza, sballonzola, sbuffa. Fa pena, fa simpatia, fa ridere. Meticcio e inadeguato: manubrio e meccanica da motorino; telaio obeso, sgraziato, eccessivo. Grosso ma incompiuto, incongruo, asimmetrico. Tre ruote: troppo o troppo poco, vorrei ma non posso, potrei ma non oso.
Eppure cammina. Coi suoi tempi, per carità, non dategli fretta, ma cammina. E arriva sempre.
L’autostrada è roba da coupé, la città, al limite, da utilitaria. Il trerrote l’autostrada non sa manco cos’è, e in città ci va di rado e malvolentieri. Lui preferisce giocare fra le mura amiche, dove può far valere il fattore campo. Fattore e campo: parole rurali, come rurale è il mondo del trerrote. Niente guard rail, qui, niente strade a due corsie. Qui solo asfalti sbiaditi e crepati, cosparsi di gobbe e crateri. Se va bene. Sennò sono sterrati, viottoli, tratturi, nomi aspri, pieni di t, e ogni t è un attentato ai semiassi, a ogni metro sassi assetati che bramano di bere alle coppe dell’olio. E allora tenetevelo pure, il vostro coupé, se proprio volete, ma sappiate che nessun ACI verrà a salvarvi, qui, e che il primo meccanico è a venti chilometri e probabilmente oggi non teneva voglia di aprire.
Così pensavo una mattina di settembre, contemplando il moderato attivismo di un inizio giornata qualsiasi a Sprusciano. Per chi non la conosce, cioè quasi tutti, è bene precisare: Sprusciàno, con l’accento sulla a. I rombi delle saracinesche come un avviamento a pedale: due strappi che si perdono nel silenzio, il terzo seguito da un brusio sordo: motore al minimo, la prima gente in giro, un’altra partenza tossicchiante.
Piccolo mondo antico, scassato ma non troppo, sbracato e dignitoso. Sprusciano. Più a lungo ci restavo, più ritornava mio, e io suo. E cambiavo l’ordine delle parole. Il mio paese. Il paese mio. E gli avere tornavano tenere. E le g tornavano c: non più cagare ma cacare, non più figo ma fico, e il fico era solo un albero con le foglie a forma di pudenda adamitiche e i frutti che proprio in quel periodo splendevano al sole, verdi o neri, pieni, appiccicosi e sensuali.
E si ammorbidiva anche il mio senso critico. Ma sì che non era così male quel paesello, e anche se la figlia del salumiere aveva la fronte più bassa di quanto Lombroso avrebbe osato sperare, mi piaceva il modo in cui mi incartava la mortadella, con gesti spicci ed esperti. E suo padre, riporto e baffetti, che proprio quella mattina mi disse “ma tu oramai stai al Nordho”, in un mezzo salentino contaminato dall’accento di città, “tu stai al Nordho”, con le aspirate e quella buffa incapacità di far finire le parole per consonante, e poi “che università fai, la Boccuni?”, e qui non era pronuncia ma proprio ignoranza, perché qualcosa la sapeva anche lui, ma così, per sentito dire, e si era fatto questa idea che a Milano c’era un’università molto chic, e il figlio del signor Nugnes doveva fare per forza quella, ma non si ricordava bene il nome.
“No, studio alla Statale” risposi, un po’ dispiaciuto di dare una delusione al salumiere. Il quale tacque, non tanto per la delusione quanto perché sull’argomento non aveva niente da dire. Così allargò il campo, fino a tornare all’ultimo concetto conosciuto.
“Milano…” sospirò pensoso, come se quel nome gli evocasse una lunga serie di aneddoti. Ma poi si riscosse e, dimenticati Milano, il Nordho e la Boccuni, mi congedò in fretta: “Be’, buona vacanza, eh?”
Io, però, per una volta, non ero in vacanza.
2.
“Mena, Federico, che domani arriva la truppa” scandì col suo timbro nasale Tonio Colazzo giusto una mezz’ora dopo. E queste parole, oltre a sancire il mio ingresso nel mondo del lavoro, introdussero le due settimane che cambiarono per sempre la mia vita. Giorni intensi, movimentati, divertenti. Felici non lo so: a ventidue anni non si perde tempo a chiedersi se si è felici, a ventidue anni si vive e basta. E non mi va neanche di attribuirmela a posteriori, la felicità, perché correrei il rischio di confonderla con la nostalgia. Ma le emozioni, i casini di quei giorni, quelli sono sicuro che non torneranno più. E, in fondo, neanche lo vorrei.
L’estate era passata veloce e dissoluta. L’Italia aveva vinto i mondiali. In realtà, già allora, il calcio non mi appassionava troppo. Avevo smesso di seguirlo davvero nel ’78, quando la mia squadra del cuore perse in un assurdo incidente stradale il suo centravanti, e con lui l’occasione irripetibile per andare in Serie A. Lo presi come un segno del destino. Ma ciò non mi impedì di vivere – come tutti – in uno stato di debosciata euforia, le settimane che seguirono il 3-2 al Brasile. Hai voglia a parlare di Berlino 2006: il Mundial è stato un’altra cosa. Fu un fatto, forse, di identificazione. Un’aderenza perfetta fra quegli sgorbietti denutriti e scuri, baffuti o scapigliati, brancaleonici, che si appendevano alle maglie dei semidei brasiliani, che sguscianti la mettevano nel culo ai marmorei tedeschi, e l’Italia in canottiera – peli sulla schiena e stuzzicadenti fra gli incisivi – che li seguiva attraverso televisori da villeggiatura, più profondi che larghi, spesso ancora in bianco e nero e sempre appesi ai capricci di antenne non centralizzate con atavici stabilizzatori a esorcizzare l’incubo del calo di tensione.
Così, se il climax fu raggiunto la notte dell’11 luglio (conservo un vago ricordo di tuffi in fontane e piazze piene di gente e cocci di bottiglia) l’ubriacatura pseudopatriottica si protrasse molto più a lungo, e ognuno la incanalò nelle forme e nei modi a sé più congeniali. Io, ad esempio, durante due settimane devastanti in un campeggio di Rimini, mi dedicai a perpetrare l’appena dimostrata sudditanza del popolo germanico punendo a modo mio un congruo numero di consenzienti cittadine tedesche.
La sessione di esami naturalmente era andata a puttane, ma questa non era una novità.
Sprusciano non è mai stato un posto speciale. Ma a ripensarci adesso si trovava, in quegli anni, sospeso in un equilibrio grazioso quanto delicato. Si era lasciato alle spalle, come tutta la Puglia, la miseria del passato – quella vera – e sperimentava – volenteroso e ingenuo – un primo confuso abbozzo di contemporaneità. Qualche raro turista iniziava a portare soldi e la vaga consapevolezza che il mondo non finiva con le prime colline murgesi, ma non ancora il disordine e la bulimia edilizia che avevano già squassato la vicina costa. Per il resto, commercio, servizi e voglia di divertirsi avevano sollevato le nuove generazioni da un destino di sveglie all’alba e colli abbrustoliti dal sole nei campi, senza però che il genius loci ne venisse irrimediabilmente compromesso.
In più, come ogni anno, finito agosto un’invisibile mano aveva schiacciato un interruttore, gettando su tutto una luce da diapositiva: nitida, brillante, tesa di tramontana, finanche profumata. La patina inerte dell’estate era stata strappata come la visiera a perdere di un moderno casco da Formula 1. Le strade improvvisamente vuote e le giornate sempre più brevi a qualcuno mettevano tristezza. Non a me, che invece da quel cupio dissolvi traevo una strana energia.
Certo, il mio paese restava pur sempre un luogo miserabile e retrivo. Io mi permettevo il lusso di essere accomodante perché da quella prigione ero evaso già quattro anni prima. Al momento di iscrivermi all’università avevo selezionato con cura la destinazione più lontana – non solo geograficamente – da quel buco di culo del mondo. Nuotando a piene bracciate nella vita della grande città, vedevo in Sprusciano una sponda sicura dove riprendere fiato, a volte, solo se e quando volevo. Un buen retiro per quando ero a corto di soldi, una scialuppa carica di tranquillità, aria buona e tutte le altre qualità tipiche dei posti in cui non c’è un cazzo da fare. Una settimana a Sprusciano – sottoposto al trattamento standard riservato a qualsiasi figlio unico maschio meridionale benestante – era stata per me – tanto per dirne una – l’unica possibile convalescenza dal concerto di Bob Marley a San Siro.
(per gentile concessione della Marsilio)
13 sotto il lenzuolo
di Giuliano Pavone
edito da Marsilio
pagg. 224
16 euro